
Cos’altro si può dire di nuovo di Vasilij Grossman, lo straordinario autore di Vita e destino, uno dei più grandi scrittori del Novecento, testimone diretto di due fra i più tragici eventi del secolo scorso, la Seconda guerra mondiale e la Shoah? Eppure, nonostante la pubblicazione delle sue opere in Europa, successiva alla sua morte avvenuta nel 1964, nei meandri della sua vicenda biografica e letteraria si possono ritrovare non solo particolari sconosciuti, ma anche questioni estremamente rilevanti ancor oggi dal punto di vista storico e filosofico. Lo si intuisce leggendo la biografia scritta da John Garrard, professore di Letteratura russa all’università dell’Arizona, e dalla moglie Alice che bene ha fatto l’editrice Marietti a rimandare in libreria col titolo Le ossa di Berdicev (pagine 488, euro 29), proprio a 40 anni dalla prima edizione di Vita e destino a cura di una piccola casa editrice svizzera, L’age d’homme. In Italia l’opera arrivò nel 1984 grazie alla Jaca Book e di recente Adelphi ne ha stampato una nuova traduzione. Il manoscritto di Grossman era stato sequestrato dal Kgb ma lo scrittore aveva fatto in tempo ad affidarne una copia ad alcuni amici: una di queste, grazie all’aiuto del fisico nucleare poi premio Nobel per la Pace Andrej Sacharov che aveva messo a disposizione l’attrezzatura per fare microfilm del suo laboratorio, era giunta in Europa occidentale. Da allora il nome di Grossman, di cui era già uscito in Germania un altro romanzo, Tutto scorre, si è sempre più affermato non solo nei circoli culturali che diffondevano i samizdat, ma in tutto il mondo letterario, come un autore imprescindibile per capire l’immensità della tragedia del secolo del male.
Grossman era nato nel 1905 a Berdicev in Ucraina, da una famiglia di origine ebraica, ma non aveva praticato granché la sua religione. Anzi, per lungo tempo si era posto convintamente al servizio della patria sovietica e, come giornalista, era stato al seguito dell’Armata Rossa per raccontare la guerra, trascorrendo fra il 1941 e il 1945 più di mille giorni al fronte. «Si può dire – scrivono i coniugi Garrard – che Grossman abbia assistito a più azioni militari di qualsiasi altro corrispondente di guerra in qualunque scenario. Fu presente alle battaglie decisive sul fronte orientale». Non solo a Stalingrado, che pure rappresentò la più dura battaglia corpo a corpo che si ricordi, fra l’autunno e l’inverno del 1942, ma anche a Kursk, probabilmente il più grande scontro di mezzi corazzati di tutta la storia militare, nell’estate del 1943, quando la Wehrmacht fallì nel tentativo di accerchiare l’Armata Rossa. Assieme all’esercito sovietico Grossman attraversò poi l’Ucraina, la Polonia e giunse a Berlino nel 1945, camminando anche nello studio di Hitler. Ma il suo arrivo a Berdicev, nel 1944, in cui sperò sino all’ultimo di poter riabbracciare la madre, rappresentò la prima tappa di un ripensamento. Innanzitutto personale, con la riappropriazione della propria identità ebraica attraverso la presa d’atto della Shoah, che in Ucraina e nei territori russi era stata realizzata attraverso fucilazioni di massa a partire dal 1941. Anzi, con tutta probabilità fu la difficoltosa esperienza della Shoah delle pallottole a spingere i nazisti a puntare sui campi di sterminio con le camere a gas. Grossman aveva pochi mesi prima toccato con mano a Kiev – e successivamente lo stesso sarebbe avvenuto a Treblinka – gli orrori commessi dal Terzo Reich, ma subito si rese conto che gli ucraini avevano collaborato nell’opera di sterminio. Nella sola Berdicev trentamila ebrei, vale a dire la metà degli abitanti, erano stati fucilati e gettati nelle fosse comuni dai battaglioni tedeschi e molti di essi erano stati “venduti” dagli stessi ucraini.
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